HomeSaluteCervello e sistema nervosoOggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale

Oggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale

Oggi 10 ottobre si celebra la giornata mondiale della salute mentale, un concetto che è sempre stato definito per differenza. La persona “sana” è quella “non malata”.

La Giornata Mondiale della Salute Mentale fu deliberata nel 1992 dalla World Federation for Mental Health in accordo con l’Organizzazione Mondiale della Salute.  Tale evento che cade il 10 Ottobre e che l’AISMe ha introdotto in Italia fin dal 1994, è l’occasione per ribadire il ruolo ormai insostituibile, anche nel nostro paese, delle Associazioni che intendono porsi come soggetti attivi nella costruzione della società a tutti i livelli, a partire da quello locale.

La salute mentale, la così tanto agognata “normalità” è fondamentalmente l’assenza di patologia. Ma allora, che cos’è questa cosa di cui oggi festeggiamo l’assenza? Che cos’è la pazzia?

Nel corso dei secoli sono state date diverse interpretazioni all’evidenza della malattia mentale, della “follia”; citando due esempi, l’interpretazione illuminista, rappresentata da Diderot, attribuisce la follia al corpo; al contrario, la tradizione romantica, attraverso le parole di Schelling, afferma: «L’essenza più profonda dello spirito umano, […] se esso viene considerato nella separazione dall’anima, quindi da Dio, è la follia. La base della ragione stessa è dunque la follia. Quindi la follia è un elemento necessario, che però non dovrebbe manifestarsi […]. Ciò che chiamiamo ragione […] è propriamente null’altro che follia regolata». [1]

Arrivando a secoli più vicini al nostro, negli anni 20 del ‘900 si assiste all’opposizione surrealista alla psichiatria tradizionale. Appoggiandosi alle scoperte freudiane, Breton e colleghi cercano di esplorare il mondo dell’inconscio e del sogno e si interessano a stati, quali l’automatismo psichico, la follia e l’ipnosi, per descriverne i dati. Propugnando la libertà (sociale e individuale), questi autori sostituiscono la ricerca sperimentale scientifica con la filosofia e la psicologia ed esaltano la figura del “folle”, considerato come persona in grado di vedere ed interpretare i fatti del mondo in una chiave particolare, scevra dai limiti e dai confini imposti dalle leggi della società borghese, e quindi più vera e più reale. [2]

Gli anni ’30 vedono l’introduzione di pratiche mediche controverse utilizzate per curare la malattia mentale, inclusa l’induzione di coma tramite elettrochoc, insulinoterapia o altri farmaci, l’asportazione di parti del cervello (leucotomia o lobotomia). Oltre agli evidenti problemi etici, si nota subito quanto la patologia psichica fosse assimilata a quella fisica, arrivando a “curare” la prima con metodi che incidono sulla seconda.

Negli anni ’50 si sviluppano i primi farmaci, in particolare l’antipsicotico clorpromazina, e lentamente il loro uso soppianta le precedenti “terapie”. Contemporaneamente, oltre al problema degli effetti collaterali, aumenta l’opposizione all’uso degli ospedali psichiatrici e si fanno strada tentativi di riportare le persone alla comunità attraverso gruppi collaborativi autogestiti.

Nel periodo contemporaneo, si dibatte ancora su una contrapposizione di idee e teorie che ha avuto origine in un movimento nato negli anni 60: l’Antipsichiatria.

Rappresentata in America da Goffman e Szasz e in Italia da Basaglia, questo indirizzo si basa sul presupposto secondo cui nella maggioranza dei casi le sofferenze psichiche sono il risultato non di malattie o disfunzioni, ma di condizionamenti ambientali o di contraddizioni sociali. Alla base c’è la premessa teorica del carattere esclusivamente sociogenetico delle malattie psichiche, quindi il

quindi il conseguente rifiuto di tutte le teorie e terapie dettate dalla psichiatria classica (in particolare dall’indirizzo medico – biologico). Questa è infatti tacciata di riduzionismo, pertanto viene richiesto un mutamento radicale nell’approccio al problema dei disturbi mentali, per esempio con l’applicazione di categorie sociologiche nella diagnosi degli stessi. Inoltre la psichiatria tradizionale viene accusata di concentrare la propria attenzione sulla malattia individuale e sulle sue basi biologiche, trascurando l’origine sociale dei disturbi psichici.

In Italia, in particolare, figure di assoluta importanza per quanto riguarda questo filone teorico sono Basaglia e Jervis (anche se quest’ultimo non volle mai essere incluso esplicitamente in questa corrente). Entrambi concentrarono le loro forze nel tentativo di combattere e sradicare la visione psichiatrica tradizionale della malattia mentale, riproponendo il problema su un piano sociologico: “La follia – afferma lo stesso Jervis – è anzitutto un giudizio di devianza; in pratica è il nome che si dà a certe violazioni del vivere sociale”. [3] La diagnosi psichica non avrebbe un valore scientifico, ma dipenderebbe da categorie socioculturali ed avrebbe l’unica conseguenza di etichettare le persone in base a due grandi classificazioni: il “normale” ed il “patologico”. Lo stesso autore si spinge poi oltre, ipotizzando un’origine del disagio psichico nell’oppressione che da sempre la società perpetua sull’uomo, a cominciare dalla “famiglia nucleare”, per poi proseguire nella scuola e nella fabbrica.a follia, la devianza, la psicopatologia è quindi qualcosa che ci appartiene. Come società e come singoli. Sta a noi decidere come gestirla quotidianamente, a prescindere dalla legislazione. Sta a noi decidere di accettare che la pazzia sia fondamentalmente sofferenza e che il sofferente sia uno di noi.

Per commettere un crimine
Ci vuole il suo coraggio
Ma per voltar la testa
Basta la debolezza
Sono tutti complici
E non te ne vorrebbero
Ti giustificherebbero, giustificando loro
(V. Capossela)

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